Sono passati poco meno di settant’anni e sembra affievolirsi nella mente di troppe persone il ricordo e il significato dell’Olocausto.
Negli ultimi anni si aggira nel mondo un terribile spettro: il negazionismo.
Sentire questa parola mette i brividi, eppure in rete, all’interno di movimenti pseudo-politici, in alcuni ambiti dell’Associazionismo e, ancor più grave, in alcuni ambienti scolastici ed accademici, questo orribile termine ha iniziato a trovare un terreno sempre più fertile.
Mi sono sempre chiesto: “E’ davvero possibile che il mondo, pian piano, stia iniziando a dimenticare quello che è accaduto solo l’altro ieri a milioni di persone? E soprattutto, come può anche una sola persona, sana di mente, negare gli stermini, i campi di concentramento, le camere a gas, le confische…?”
Ritengo assurdo che possa essere permessa anche la sola pronuncia della parola “negazionismo”, dovrebbe essere reputato un crimine, perseguibile in tutto il mondo o per lo meno nei paesi più evoluti.
Fra pochi giorni, il 27 Gennaio, si celebrerà la giornata della memoria che troppo spesso sembra essere solo un appuntamento rituale, con cadenza annuale, in cui vengono trasmesse immagini di repertorio nei TG, viene inserito qualche film nei palinsesti televisivi e poco più. Certamente la distanza storica dagli eventi e quella fisica dai luoghi contribuiscono a far scendere l’attenzione verso il tema, così come accade nei racconti dei nonni (penso sempre a quanti ne ho sentiti io sulla guerra e sulla distruzione del mio paese), che lasciano sì un po’ di spazio all’immaginazione, ma sembrano sempre essere al confine tra la realtà e la fantasia.
Personalmente fino a 5 anni fa, sebbene conscio dell’immane tragedia rappresentata dalla Shoah, non ero mai andato oltre i libri (per lo più scolastici), qualche documentario, e due- tre film sul tema…
Nel marzo 2007 qualcosa è cambiato: ho fatto un viaggio in Polonia, a Cracovia, e in quella occasione mi sono recato ad Auschwitz. A questo punto del post le parole potrebbero diventare superflue e sarebbe difficile descrivere le sensazioni provate.
Posso solo dire che in quel momento ho pensato: “Ogni persona dovrebbe venire, almeno una volta nella vita, in questo luogo…”. Una riflessione forse banale, ma è davvero la prima cosa che mi è venuta in mente.
Nell’arco di 2-3 ore abbiamo varcato il cancello in cui troneggia la tristemente nota scritta “Arbeit Macht Frei” (Il lavoro rende liberi), con cui venivano umiliate le persone che entravano nel campo di concentramento, siamo entrati nei vari “block”, abbiamo camminato al fianco di recinzioni con filo spinato, siamo passati vicino alla ferrovia su cui correvano i treni del dolore…
Sono rimasto colpito da come una scolaresca italiana, in gita scolastica, sia passata dal normale trambusto, tipico degli adolescenti, al silenzio assoluto nell’arco di pochi minuti. Tutti i ragazzi, anche i più vivaci e i meno interessati, in poco tempo sembravano essere diventati uomini e donne vissuti.
Da quel giorno ho visto tutto con un’altra ottica, tornato in Italia ho riletto “Se questo è un uomo” di Primo Levi e mi è sembrato di vedere tutto da vicino, come se fossi lì.
Sicuramente è stata un’esperienza molto forte, ma di cui sono pienamente orgoglioso. E’ un viaggio che consiglio di fare, è giusto che si veda, che si tocchi con mano, solo così si può capire fino in fondo.
Qui di seguito un brevissimo video da me girato in quella circostanza.