Da quando si è diffusa in TV la moda delle fiction mi sono sempre rifiutato di guardarle, vuoi per la qualità cinematografica, vuoi per i temi trattati; a memoria credo di averne seguito esclusivamente un paio, una sul Grande Torino e una su Rino Gaetano.
Questa settimana, però, è andata in onda su RAIUNO una mini serie di due puntate, dedicata alla vita di uno degli imprenditori più illuminati della storia del capitalismo italiano, Adriano Olivetti.
Devo ammettere che le opinioni che avevo sul genere televisivo si sono rafforzate: sceneggiatura mediocre, cast non adeguato (eccezion fatta per il protagonista), fotografia inesistente, dialoghi a volte ridicoli, per non parlare delle storielle amorose a margine, spesso create ad arte per tenere incollato lo spettatore allo schermo. L’interesse verso la storia di Olivetti mi ha però spinto a guardare le due puntate, durante le quali è venuto fuori un quadro sì abbastanza sommario ed annacquato, ma che è riuscito a tracciare a milioni di italiani i contorni di questa splendida figura, forse unica nel panorama dell’imprenditoria nostrana.
In realtà mi era venuto in mente di scrivere qualche riga su Olivetti già qualche mese fa, dopo aver assistito ad una puntata di “Storie” su RAI3, in cui Corrado Augias presentava il libro “Ai Lavoratori”, pubblicato dalle Edizioni In Comunità in collaborazione con la fondazione Adriano Olivetti. Proprio in quell’occasione i vari pezzi di conoscenza che avevo sul personaggio iniziarono ad incastrarsi meglio fino a delineare una figura, secondo me, sconvolgente.
Adriano Olivetti fu uomo di impresa, filantropo, innovatore, visionario, cultore del bello e del design; per lui gli utili aziendali dovevano sempre andare di pari passo con i progressi della società nel ramo sociale, educativo, istruttivo, culturale. Fu un profondo innovatore, introdusse in azienda un’organizzazione per funzioni, si occupò della razionalizzazione dei tempi e dei metodi e puntò costantemente all’eccellenza tecnologica, guardando presto ai mercati internazionali A metà degli anni Cinquanta, dopo aver già finanziato nobili attività, quali l’assistenza e i servizi sociali, decise addirittura di ridurre l’orario di lavoro in fabbrica, portandolo da 48 a 45 ore settimanali, garantendo lo stesso stipendio e proprio per questo vinse il Compasso d’Oro, un riconoscimento prestigioso, ricevuto per aver contribuito al miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori.
Giustizia, equità e solidarietà sono stati gli ideali che hanno sempre accompagnato la breve vita di Adriano Olivetti. Nel dopoguerra centinaia di migliaia di famiglie del Mezzogiorno iniziarono a sgretolarsi a causa della forzata emigrazione verso il prosperoso Nord e Olivetti rimase toccato dai risvolti sociali di tali scelte, tanto da decidere di aprire a Pozzuoli una fabbrica per permettere alle persone di guadagnarsi da vivere nei propri luoghi, contribuendo ad aumentare il benessere del tanto bistrattato Meridione.
Ma la visione di Olivetti andava ben oltre l’azienda, tanto da decidere, come si dice oggi, di scendere in campo, ma nel senso più nobile del termine, se paragonato a quanto fanno gli imprenditori di oggi: lui provò a servire la politica italiana per il bene di tutti, oggi gli imprenditori decidono di servirsi della politica per il tornaconto dei propri affari privati. Come non evidenziare, poi, la sua passione per lo stile e il suo spirito di innovazione: la Olivetti lettera 22 è stato il più fulgido esempio di ricerca, cura e funzionalità a servizio del design industriale. Recentemente, leggendo la biografia di Steve Jobs, ho potuto cogliere diversi tratti comuni tra i due imprenditori, almeno per quanto riguarda la ricerca di soluzioni stilistiche innovative per i propri prodotti; è però doveroso sottolineare le abissali differenze tra l’imprenditore di Ivrea e quello di Palo Alto in quanto a umanità e attenzione verso i dipendenti, prerogative esclusive del primo. Già negli anni Cinquanta la Olivetti aveva aperto negli USA un laboratorio di studi sui calcolatori elettronici, costituendo successivamente il Laboratorio di ricerche elettroniche a Pisa e nel 1959, un anno prima di morire, riuscì a lanciare sul mercato il primo calcolatore elettronico italiano, orgoglio per tutta la nazione.
La scorsa estate in un armadio di casa a Borrello ho scovato la macchina portatile di famiglia,“Olivetti lettera 32” e riflettevo su come siano cambiate le cose nel volgere di poco tempo e sul fatto che mio zio avesse scritto un’intera tesi di laurea con quella macchina da scrivere, una cosa oggi neanche immaginabile; sebbene io non appartenga alla generazione delle macchine da scrivere ricordo sempre con nostalgia ed un pizzico di orgoglio quando, all’esame di Terza media, la utilizzai per realizzarmi una piccola tesina per il giorno dell’esame orale!
Probabilmente passeranno decenni prima che torni a vedere una fiction in TV, ma spero che le due puntate andate in onda in RAI siano servite almeno alla classe imprenditoriale e dirigenziale nostrana che oggi, ahimè, salvo rari casi, sta dando il peggio di sé, e, presa dalla lotta per la sopravvivenza nella spietata arena della globalizzazione, non è più in grado di innovare, di operare con orizzonti più ampi rispetto a quelli dell’utile aziendale, in una frase: ha smesso di sognare in grande.