Era l’Ottobre del 2001 quando iniziai la mia prima importante esperienza lavorativa, nell’ufficio Marketing&Communication di un grande gruppo abruzzese della moda, i cui marchi e prodotti stavano conquistando il mondo intero. Da qualche anno era iniziata una profonda fase di cambiamento sociale, economico e tecnologico, meglio conosciuta col nome di “globalizzazione”.
Nell’arco di qualche anno il fatturato del Gruppo raggiunse vette impensate, ma nella seconda metà del primo decennio del 2000 iniziò a verificarsi una concomitanza di fattori negativi: giacenze di magazzino crescenti, gestione finanziaria non rispondente alle nuove esigenze che il settore creditizio manifestava, delocalizzazione nei Paesi emergenti (in cui la manodopera era più a buon mercato) di molte fasi produttive, qualità e tempi di consegna della merce a dir poco discutibili, scarsa velocità di adattamento ai nuovi ritmi commerciali dettati dalla rete e, non ultimo, il propagarsi di nuove aziende (direttamente concorrenti o comunque in qualche modo potenzialmente succedanee); a tutto questo si aggiunse l’esplosione di una delle più profonde crisi economiche del dopoguerra e così il cerchio si chiuse nel 2012 con la vendita dell’azienda (e dei relativi marchi) ad un fondo di investimento cinese (potenza ormai divenuta tra le prime economie del pianeta); la produzione e il principale canale di vendita si spostarono massicciamente in Asia, lasciando all’Italia inizialmente le briciole e dopo un po’ neanche più quelle. In questa esperienza – mia e di altre centinaia di persone che lavoravano in quell’azienda – si può racchiudere, in un certo senso, l’essenza della GLOBALIZZAZIONE, in alcuni casi un’opportunità unica per lo sviluppo economico e per l’aumento della competitività, a vantaggio sia delle aziende che dei consumatori, in altri casi una fucina di disuguaglianze, squilibri e povertà.
Solo nella nostra nazione si possono contare miriadi di esempi del tipo appena citato: il fenomeno ha investito i più svariati settori (alimentare, tessile, sportivo, meccanico, etc. ) di molte nazioni occidentali.
Ma cos’è la globalizzazione? Spesso in aula sottopongo agli studenti tale quesito e devo ammettere che in molti casi vengono espressi concetti e idee non del tutto distanti dalla portata del fenomeno. Se ci si limitasse a considerare la globalizzazione esclusivamente come un mero “allargamento dei mercati” non si coglierebbe la portata dello stesso, anche in considerazione del fatto che già nel passato molte volte sono stati “aperti” confini economici, generando un’intensificazione dei flussi commerciali. Senza andare indietro fino alle grandi reti stradali costruite dai Romani duemila anni fa o ai viaggi dei mercanti veneziani del XIII secolo sulla famosa Via della Seta, ci si potrebbe fermare all’Inghilterra del XVIII secolo e alle numerose invenzioni della Rivoluzione Industriale (macchina a vapore, telaio meccanico,etc. etc.) grazie a cui si iniziò ad organizzare in maniera più efficiente il lavoro delle fabbriche e furono garantiti collegamenti veloci tra luoghi diversi, consentendo di produrre in un posto e consumare il prodotto in un altro. I costi di comunicazione e di trasporto subirono considerevoli riduzioni e con l’introduzione del cavo telegrafico atlantico si ridusse il tempo di trasmissione delle informazioni tra Europa ed America da decine di giorni a poche ore. Ciò che però contraddistingue la globalizzazione rispetto alle altre forme di allargamento dei mercati avvenuti in precedenza è il forte contributo dato dal progresso tecnologico-informatico al fenomeno dell’integrazione dei mercati. All’inizio, sul finire del XX secolo, la globalizzazione fu da molti osannata, avendo portato, a detta degli esperti, tra il 1991 e il 1996 un flusso di capitali verso i Paesi in via di sviluppo sei volte più grande rispetto al quinquennio precedente. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) a metà anni Novanta si era posto l’obiettivo di garantire, con la globalizzazione, una prosperità mai vista prima, sia ai Paesi già industrializzati, sia a quelli in via di sviluppo. Purtroppo, però, già sul finire del secolo a Seattle si assistette alla prima grande protesta contro la globalizzazione (va però ricordato che troppo spesso le manifestazioni “no-Global” sono sfociate in atti di violenza fini a se stessi, senza portare idee e contributi alla causa): i lavoratori americani ed europei hanno iniziato ben presto a vedere i loro posti di lavoro messi a rischio a causa della concorrenza cinese, tanto spregiudicata nella produttività quanto indietro anni luce nel garantire condizioni di lavoro e retribuzioni dignitose.
Come ci ricorda uno dei più illustri analisti della Globalizzazione, il Premio Nobel Joseph Stiglitz, alla base delle liberalizzazioni c’è stata, sin dal primo momento, un’iniquità di fondo, volta a uno sfruttamento dei mercati da parte dei Paesi occidentali per aumentare le esportazioni, ma, al tempo stesso, permettendo loro di proteggere i settori in cui il alcuno Paesi del Terzo Mondo era più forte (si pensi, in primis, a quello agricolo).
L’economista russo-americano Simon Kuznets, vincitore del Nobel nel 1971, è spesso ricordato per aver messo ben in evidenza come, al verificarsi di profondi cambiamenti nella società, si assiste subito ad un aumento delle disuguaglianze , poiché non tutti gli individui, aziende o gruppi sociali si adattano ai mutamenti con la stessa velocità. Secondo Kuznets, però, queste disuguaglianze, col tempo, tenderebbero a diminuire perché gradualmente anche i più restii al cambiamento iniziano ad adattarsi e soprattutto perché i poteri pubblici spesso decidono di intervenire nell’economia per ridurre gli eventuali disagi sociali.
Nel caso della globalizzazione – a pieno titolo un “cambiamento” con la “C” maiuscola – è però mancato proprio l’intervento pubblico, perché la politiche nazionali sono diventate inefficaci nei confronti di un fenomeno nuovo, di entità planetaria, e non si è creata mai una vera e propria entità sovranazionale di un certo spessore, in grado di ben regolare questi “cambiamenti globali”. Il problema della “governance” credo sia proprio il cuore delle disfunzioni legate alla globalizzazione; se durante il XX secolo le politiche economiche nazionali vedevano ciclicamente contrapposte, ad ogni tornata elettorale, le idee liberiste (vicine al “laissez-faire” di ispirazione classica) e quelle social-democratiche (favorevoli ad un intervento statale, utile per correggere le storture del mercato), con la globalizzazione, la finanza, il lavoro e il commercio hanno superato le frontiere, causando un “vuoto pubblico” nella governance politica dell’economia.
Uno dei lati più negativi va poi visto nell’instabilità causata dalle speculazioni finanziarie, divenute, nell’era di internet, molto più veloci, spregiudicate e non controllate.
La liberalizzazione dei mercati finanziari è stata addirittura peggiore della liberalizzazione del commercio. I capitali volatili – ci ricorda Stiglitz – sono stati investiti unicamente in prestiti a breve termine con tassi intorno al 18 % a fini speculativi, in base all’andamento dei tassi di interesse.
A tale proposito, il movimento “anti-globalizzazione”, durante la crisi iniziata nel 2008, ha opportunamente rispolverato una misura ideata molti decenni prima da un altro Premio Nobel per l’Economia, James Tobin. L’economista statunitense, neo keynesiano, propose già negli Anni Ottanta un’imposta sulle transazioni finanziarie internazionali, diretta a limitare le speculazioni a breve termine e a garantire la stabilità dei mercati valutari e, tra le azioni economiche raccomandate nel 2011 dalla Commissione Europea , vi furono proprio interventi ispirati alla cosiddetta “Tobin Tax”.
Un altro aspetto non secondario da evidenziare vede la globalizzazione portare a un tipo di “disuguaglianza diversa” rispetto al passato: se, infatti, dal XIX secolo in poi si erano sempre registrati importanti squilibri tra le economie avanzate e quelle in via di sviluppo, con la globalizzazione abbiamo assistito ad un fenomeno diverso, ossia la diminuzione degli squilibri tra Paesi industrializzati ed emergenti ( tra la fine del XX secolo e gli inizi del XXI secolo si sono fatte strada nazioni quali Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – cosiddette BRICS), ma abbiamo assistito ad un aumento delle disuguaglianze all’interno dei Paesi stessi.
In conclusione, pur ritenendo il processo di globalizzazione ormai irreversibile (è difficile pensare alla reintroduzione di dazi e dogane su scala mondiale, o a restrizioni all’ormai lanciatissimo fenomeno dell’e.commerce, che ci accompagna quotidianamente da anni, così come è arduo credere ad un mondo che, nel XXI secolo, ceda completamente ad una voglia di ritorno a misure protezionistiche o ad un blocco della circolazione di uomini – e quindi di lavoratori e consumatori – tra un Paese e l’altro), ma sicuramente andranno messi tanti puntini sulle “i” e questo non potrà che accadere con decisioni collegiali, così come avvenuto lo scorso anno a Parigi per il contenimento del riscaldamento del Pianeta (fenomeno accentuatosi proprio con lo sviluppo della Globalizzazione e con l’emergere di Economie nuove), nella speranza che poi le nazioni potenti (o prepotenti) non cambino le carte in tavola a seconda del vento politico che soffia in un determinato periodo. Ma su questo, ahimè, nutro qualche piccolo dubbio.