In questo periodo di forte crisi economica in cui l’Italia e molte altre nazioni del vecchio continente cercano di stare all’interno dei paletti fissati dall’Europa, si sforzano per tenere sotto controllo i saldi di bilancio, lottano per contenere lo spread sui Titoli di Stato, uno degli elementi che più di altri viene citato, osservato, monitorato è il Prodotto Interno Lordo.
Il PIL è in sostanza l’insieme di tutti i beni e servizi finali prodotti all’interno di una nazione in un determinato periodo; ovviamente non ne fanno parte i prodotti intermedi, altrimenti si avrebbero duplicazioni, pensiamo ad esempio al valore dell’articolo “automobile”, di cui non possono esser presi in considerazione anche i singoli componenti (ruote, sedili, lampadine, autoradio, etc. etc.) venduti dai vari fornitori alle case automobilistiche.
In Italia il PIL è stato introdotto agli inizi degli Anni Settanta e da allora si assiste alle sue variazioni con ansia o speranza; il valore del parametro in questione può cambiare perché per esempio variano le risorse disponibili nell’economia del Paese, siano esse capitali o forza lavoro, o perché magari è mutata l’efficienza con cui i fattori di produzione vengono impiegati.
Il vero problema, a mio avviso, entra in gioca quando al PIL iniziano ad essere abbinati significati diversi o ben più grandi, che vanno al di là della misurazione di quanto si produce, arrivando a considerarlo come indice del benessere dei cittadini.
Tutto ciò non è però del tutto corretto se si considera che non tutti gli aspetti che contribuiscono a determinare il benessere di una nazione confluiscono nel PIL: i servizi pubblici, il volontariato, il livello di inquinamento, le attività domestiche o fatte in economia, per non parlare del capitolo legato al fenomeno del sommerso, sono tutti aspetti cruciali, ma non presenti nel PIL.
Oltretutto, in una Società entrata da poco nel mare magnum della globalizzazione, non è difficile riscontrare una non adeguatezza dello strumento rispetto ai tempi, ai ritmi e agli scenari offerti da questo nuovo millennio.
Nelle varie nazioni, economisti e statistici analizzano più volte l’anno ingenti moli di dati per poi cercare di ricondurre tutto ad un indice, un parametro, un solo numero, il PIL.
Molti di questi stessi analisti sanno però che non c’è un rapporto diretto tra PIL e benessere. Un valore alto del PIL a volte può nascondere un fenomeno di malessere sociale, pensiamo per esempio alle forti impennate del parametro che si hanno nel periodo di ricostruzione al termine di una guerra o a seguito di una catastrofe distruttiva. E poi, come interpretare gli innalzamenti del PIL che avvengono a scapito di una profonda e scriteriata opera di distruzione di risorse ambientali?
Lungi da me voler demonizzare il PIL o sminuirne gli studi che ne sono alla base, ma è forse interessante riflettere su quali altri parametri affiancargli per poter dare un quadro più completo dello stato di salute ed evolutivo di una nazione.
Un esempio banale ma alquanto efficace circa la non totale idoneità del PIL fu fatto qualche anno fa dal premio Nobel Joseph Stiglitz, famoso anche per aver tracciato in diversi libri i pro e soprattutto i contro del fenomeno della Globalizzazione.
L’economista americano pose l’attenzione sul funzionamento dell’automobile esortando a riflettere su cosa potrebbe accadere se sul cruscotto vi fosse un unico indicatore, ossia il contachilometri: potremmo sempre conoscere la velocità del mezzo, ma non sapremmo mai tra quanto potrebbe finire il carburante, non conosceremmo mai il livello dell’olio e dell’acqua o eventuali anomalie della batteria.
Nel 1990 è stato introdotto un indice di sviluppo umano (ISU), che oltre al PIL prende in considerazione altri due aspetti, la salute e l’istruzione e dal 1993 viene utilizzato dall’ONU per valutare la qualità della vita nei vari Stati. Nel complesso calcolo che sta alla base dell’indicatore trovano spazio fattori quali l’aspettativa di vita, lo sviluppo sostenibile, l’alfabetizzazione, la giustizia sociale e tanti altri aspetti che vanno ad affiancarsi ai più classici indicatori prettamente economici. E’ un punto di partenza.
Sicuramente prima di riuscire a sostituire il PIL o ad integrarlo ufficialmente con misuratori altrettanto importanti passeranno anni, ma il fatto di sapere che da tempo economisti illuminati quali Stiglitz, il francese Fitoussi e l’indiano Sen (anche lui Premio Nobel), stiano dedicando tempo e risorse al tema, all’interno di Commissioni, Team di lavoro o Istituti di Ricerca sovranazionali, ci deve far ben sperare, se non per il nostro futuro, almeno per quello dei nostri figli o nipoti.