La crisi che sta investendo gran parte del mercato mondiale da 4-5 anni ha caratteristiche proprie e mai riscontrate nel passato: essa è figlia della globalizzazione, del predominio del mercato finanziario su quello reale, dei cambiamenti graduali ma al tempo stesso epocali che avvengono in Cina, della progressiva sostituzione dell’uomo con la macchina, della crisi energetico-petrolifera, del ruolo dell’Euro, una moneta ancora troppo giovane e non adeguatamente supportata da un vero soggetto politico unitario e di tante altre concause tipiche della nostra era.
Ma nel corso del tempo i cicli storici hanno spesso portato a situazioni economiche per certi aspetti simili a quella attuale e sono sempre state affrontate ricorrendo a politiche economiche mirate.
Volendo semplificare tutto (e me ne scuso fin da ora per questo), le scuole di pensiero che storicamente cercano di risolvere i problemi macroeconomici sono due: quella Classica e quella Keynesiana, anche se va subito precisato che la contrapposizione tra queste non è netta e vi sono molti tentativi di mediazione che hanno avvicinato e spesso integrato le teorie.
Alla base della Teoria Classica, affermatasi nel XIX Secolo c’era il riconoscimento del ruolo centrale del mercato che può regolare tutto in maniera automatica; è il concetto del lasseiz-faire, o della cosiddetta mano invisibile del mercato che non presupponeva alcuna ingerenza da parte dello Stato nell’Economia. Tale teoria sosteneva che un sistema economico, se lasciato libero di agire in regime di concorrenza, produce il benessere di tutti, creando un regime di piena occupazione.
Senonché nel 1924 in Inghilterra i disoccupati raggiunsero il milione e all’inizio degli Anni Trenta in America il 25% dei lavoratori si ritrovò senza un lavoro. La teoria Classica, che aveva sempre pensato di creare nuovi posti di lavoro abbassando i livelli generali dei salari, si trovò a non saper fronteggiare crisi strutturali con livelli di disoccupazione elevatissimi.
Ecco allora entrare in scena John Maynard Keynes , economista inglese, matematico attuariale e profondo conoscitore della finanza, che nel 1936 pubblica la Teoria Generale dell’occupazione, interesse e moneta, un libro che, insieme a La Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith (1776) e al Primo Libro del Capitale di Carl Marx (1867), ha ogni probabilità di essere tra i più citati della storia dell’economia. In tale testo keynes fornisce una spiegazione articolata alla catastrofe del 1929 rifondando su nuove basi la scienza economica. Per Keynes e i suoi seguaci i soli meccanismi del mercato non sono sufficienti per raggiungere in un sistema economico la piena occupazione, egli intuisce che lo Stato non può essere un semplice spettatore dei comportamenti economici dei privati e che è compito della Politica Economica correggerne le disfunzioni.
Va subito precisato, a scanso di equivoci, che l’intervento pubblico deve sempre essere di tipo produttivo e strategico: per intenderci, non si possono mettere sul piatto soldi per scavare una buca e poi metterne altri affinché la buca stessa venga richiusa; è su distorsioni di questo tipo che si sono basate molte delle politiche economiche ed assistenziali italiane (iniezioni continue di soldi pubblici in settori non sempre strategici e volte spesso a coprire esclusivamente gestioni aziendali fallimentari).
Mutatis mutandis, dopo quasi un secolo, come detto, ci si ritrova a dover fronteggiare una crisi economica importante e va da sé che in tali momenti non si può non tener conto dell’insegnamento Keynesiano ; a livello europeo, per esempio, la sola austerità, pur necessaria all’interno di un sistema di cambi fissi quale è l’Euro, non riuscirà a tirar fuori il vecchio continente dal pantano in cui si trova ed è solo grazie ad iniezioni di politiche keynesiane mirate che si potranno ottenere risultati importanti.
Concludo scusandomi per il grado di semplificazione dei concetti (trattati in maniera fin troppo poco accademica) e ricordando che le tesi sostenute da Keynes sono volte a favorire un incremento della domanda dei beni presupponendo che nei sistemi capitalistici il reddito sia distribuito in maniera più equa tra i vari soggetti economici.
Credo pertanto che la teoria Keynesiana (che, a scanso di equivoci , è bene ricordare che si trova sempre agli antipodi rispetto ad un’idea collettivistica dell’economia) dovrà essere considerata ora più che mai una risorsa preziosa a cui attingere per indirizzare l’attuale economia di mercato verso strade socialmente più eque e in grado di garantire un futuro più stabile al riparo da possibili catastrofi economico-sociali.