Era il periodo delle scuole elementari e ogni estate mi accorgevo che la gran parte dei gelati confezionati costava un po’ di più rispetto all’anno precedente; nell’arco di un paio di anni arrivava inesorabile il giorno in cui andavo al negozio di alimentari per comprare il solito filone di pane da 2 kg e mi accorgevo che i soldi che mi aveva dato mia madre non bastavano più, il prezzo era aumentato; mio fratello faceva una raccolta di quotidiani sportivi e riviste musicali e quando mi mettevo a sfogliarli, notavo come il prezzo fosse aumentato da un anno all’altro, ma soprattutto ricordo il primo giorno in cui al bar mio nonno mi dette i soldi per comprare le patatine e come una decina di anni dopo per le stesse patatine occorresse più del doppio. Tutto questo accadeva negli Anni Ottanta. Qualche tempo dopo, nel 1997, durante il corso di economia politica, riuscii a dare un nome a quel fenomeno di innalzamento dei prezzi a cui avevo assistito nella mia età adolescenziale: inflazione.
Da quel momento in poi, vuoi che si discutesse a casa, vuoi che si parlasse tra amici, vuoi che si seguisse una lezione all’Università, la parola inflazione trovò spesso posto nei ragionamenti, venendo vista quasi sempre come una sorta di spettro gigantesco da cui difendersi e che perseguitava la nostra Italia ormai da decenni – si pensi che a metà anni Ottanta il tasso di inflazione era arrivato a toccare anche quota 25%!
Pochi giorni fa il Governatore della BCE Mario Draghi, mentre comunicava l’ennesimo e forse ultimo taglio dei tassi di interesse per dare un impulso all’economia del vecchio continente, ha ribadito l’obiettivo di riportare in alto il livello d’inflazione, puntando ad arrivare dall’attuale 0,2% al 2% nell’arco di un paio d’anni. Ma come? Adesso che i prezzi sono più bassi, ora che un pieno di benzina costa dai 10 ai 20 euro di meno rispetto a due anni fa, proprio ora l’obiettivo diventa quello di innalzare l’inflazione? E soprattutto, come spiegare in classe ai ragazzi che in questo momento storico il tasso di inflazione è ai minimi storici, e questa cosa non è affatto positiva?
La definizione più comune di inflazione è quella che la vede come “un aumento sostenuto del livello generale dei prezzi, che determina una perdita di potere d’acquisto della moneta”.
L’inflazione si calcola prendendo in considerazione una media dei prezzi di diverse tipologie di beni, il cosiddetto “paniere”, che ovviamente varia negli anni nella sua composizione – per esempio oggi il tablet fa parte del paniere, ovviamente 10 anni fa no!
Essa colpisce soprattutto i percettori di redditi fissi, come ad esempio operai ed impiegati, i quali, se non riescono ad ottenere un aumento salariale, subiranno una diminuzione del loro reddito reale e vedranno diminuire il loro potere d’acquisto. Allora sembrerebbe ovvio e opportuno un ritocco in alto degli stipendi, ma così non è, anche perché ad un aumento degli stipendi seguirebbe un innalzamento dei costi per le imprese, le quali, quindi, sarebbero costrette ad alzare di nuovo i prezzi; ecco, allora, generarsi un circolo vizioso e pericoloso.
Ma vi sono anche altre conseguenze dell’inflazione oltre a quelle già citate; essa per esempio va ad incidere direttamente sui risparmi dei cittadini. Questi ultimi, infatti, temendo un’ulteriore perdita del potere d’acquisto, potrebbero decidere di spendere subito il loro denaro o acquistare i cosiddetti beni di rifugio, piuttosto che risparmiare per il futuro. Un altro grosso problema si genera per chi accende un mutuo a tasso variabile e poi è costretto a pagarlo, negli anni successivi, a tassi nettamente superiori.
Da sempre l’analisi dell’inflazione si è rivelata complessa e articolata, a seconda degli attori, dei periodi e delle politiche economiche ad essa connesse.
Sul finire degli anni Cinquanta un economista, W. Philips, notò addirittura che una bassa inflazione di solito si accompagnava ad un’elevata disoccupazione e, al contrario, un elevato tasso di inflazione spesso coincideva con un generale abbassamento del livello di disoccupazione. Tale relazione però si mostrò poi poco veritiera negli anni Settanta, quando si registrò soprattutto in America un’alta inflazione associata ad un’alta disoccupazione. Quanto evidenziato sino ad ora dimostra una sola cosa: in economia niente è nero o bianco, i fenomeni possono assumere diverse sfaccettature a seconda dei periodi e dei contesti. Non esiste mai una ricetta unica, una sorta di formula magica in grado di risolvere qualsiasi tipo di problema economico-sociale, ma ciò non significa che le autorità debbano rimanere inerti di fronte ai fenomeni, agli accadimenti economici. E’ compito delle autorità eocnomico-politiche cercare di prevedere i fenomeni, anticiparli, per quanto possibile, e, alla fine, intervenire per porre rimedio alle storture del mercato e quindi anche ai fenomeni legati ai prezzi.
Ecco, allora, che oggi il Governatore Mario Draghi e l’Europa intera ci mettono in guardia da un’inflazione troppo bassa, talmente bassa da non poter farci esultare per un pieno di benzina meno costoso, ma, anzi, da farci tremare di fronte ad un livello basso di prezzi (chiamato “deflazione”) che è sintomo di recessione e di disoccupazione stessa.
Un calo vertiginoso e continuo dei prezzi potrebbe anche rendere felici i consumatori, ma questa è una visione molto ridotta del fenomeno, perché la deflazione innesca un circolo vizioso che porta le imprese a guadagnare di meno e ad avere meno liquidità aziendale. Vedendo ridurre il proprio fatturato, le imprese riducono la produzione e rinunciano a nuove assunzioni; ciò causerà un aumento della disoccupazione con l’effetto di far circolare ancora meno denaro. Se le imprese non riducono velocemente il livello produttivo dei loro impianti, rischiano di inondare il mercato di merce che resterà invenduta con l’effetto di dover abbassare ancor di più i prezzi, alimentando nuovamente la deflazione.