Il divorzio, l’aborto, il finanziamento pubblico dei partiti, il nucleare, la caccia, le concessioni TV, le leggi elettorali…sono solo alcuni degli argomenti su cui il popolo italiano è stato, negli anni, chiamato a “dire la propria”, decidendo, con un SI o con un NO, se abrogare o mantenere in vita una Legge fatta dai membri del Parlamento, ossia quelle persone che noi stessi “deleghiamo” affinché creino le giuste regole per il funzionamento del nostro ordinamento.
Spesso, in momenti di elevata sfiducia verso le istituzioni, si inneggia al cosiddetto “potere al popolo”, la maggior parte delle volte esagerando nei termini e nei modi (basti pensare a quante volte erroneamente gente comune, professionisti e, ahimè, perfino membri di partito, parlino in maniera sconsiderata: si sente spesso dire ”Bisogna tornare alle urne, questo non è un governo eletto dal popolo”, ma basterebbe fermarsi a riflettere un secondo sul fatto che in Italia il popolo non elegge i membri del Governo per capire che sarebbe meglio tacere, eppure no, viviamo una fase storica in cui il pressapochismo, soprattutto sui temi socio-politici, regna sovrano.
Non fa eccezione il capitolo legato ai Referendum: spesso sentiamo proclami, del tipo “Raccogliamo le firme per un Referendum, questa legge va contro i nostri principi, è antidemocratica, etc. etc.”, ma poi spesso non si riesce a raggranellare neanche il minimo di firme necessarie e ciò non denota sempre e soltanto disinteresse da parte della gente, ma forse rappresenta anche un minimo di fiducia che la gente stessa ripone nell’operato del Parlamento.
Uno degli istituti previsti dalla Costituzione, all’Articolo 75, per mettere il popolo il più possibile al centro della vita socio-politica della nazione, è proprio il Referendum abrogativo.
Ricordo, da piccolo, di aver spesso accompagnato al seggio del mio paese i miei genitori il giorno delle varie tornate elettorali e, sebbene non capissi un granché di quello che mi veniva spiegato, mi ero fatto un’idea del Referendum comunque non tanto distante dalla realtà: “Se dici SI’ significa che VUOI ELIMINARE quella Legge, perché non ti piace, se dici NO, vuol dire che ti piace e la vuoi mantenere in vita, NON VUOI ELIMINARLA”.
Mi fu spiegato che il primo Referendum abrogativo era stato votato in Italia nel 1974 chiamando il popolo a decidere su una tematica molto delicata, dato anche il forte sentimento religioso presente nella nostra nazione: quella volta il popolo italiano disse NO a un quesito che proponeva di abrogare la legge che aveva introdotto nel nostro ordinamento il divorzio. Sia questo, sia quello sull’aborto del 1981, furono due chiari esempi di come possano (o debbano) essere scisse le sfere civiche e religiose presenti in ciascuno di noi: passò in molti casi il seguente ragionamento: “Ok, io probabilmente non me ne avvarrò mai, ma voglio che nel mio Stato ci sia la possibilità di divorziare o di interrompere la gravidanza, perché non sono in grado di conoscere gli eventuali motivi che potrebbero essere alla base di tali scelte nella testa, nella coscienza e nelle storie di milioni di uomini e donne”. Ecco, allora, che il Popolo Sovrano si trovò ad avallare il “giusto” lavoro legislativo fatto dal Parlamento.
Frequentavo la prima media e ricordo abbastanza bene che, dopo i tragici fatti dello scoppio della centrale sovietica di Chernobyl, vi fu un grande dibattito intorno al Referendum sul Nucleare, sottolineando sì i possibili pericoli legati al proliferare delle centrali, ma rimarcando anche l’estrema vicinanza dell’Italia alla Francia, una nazione già da anni votata al nucleare, ragion per cui un eventuale problema legato alle centrali transalpine avrebbe purtroppo potuto toccare anche noi e da un professore dapii l’importanza di individuare sempre le ragioni di una e dell’altra parte, per poi decidere bene.
Tre anni dopo, nell’estate del 1990, ricordo che accadde qualcosa di strano: ci fu l’ennesima tornata elettorale referendaria e una delle tematiche su cui si sviluppavano i quesiti era quella legata alla caccia. Il referendum andava a limitare e regolamentare l’attività venatoria (non ad eliminarla), andando ad abrogare, tra le varie cose, l’accesso ai fondi privati da parte dei cacciatori.
I SI trionfarono, superando il 90% delle preferenze, allora chiesi a mio padre: “Allora non avranno più vita facile i cacciatori?” Mi rispose: “No, questa volta il referendum non è valido”.
Ma come? Quelle poche certezze che avevo in materia crollarono in un secondo. Nei giorni successivi, sia vedendo la TV, sia ascoltando i discorsi fatti in paese, capii che in un certo modo i cacciatori (e non solo) avevano cercato di invogliare la gente a non votare, in modo da non far raggiungere il numero minimo per rendere valido il Referendum, il cosiddetto QUORUM.
Da quel lontano 1990 la parola QUORUM ha rappresentato in ogni tornata referendaria l’aspetto più importante e centrale, ancor più della tematica oggetto del Referendum stesso.
Anni dopo, imbattendomi di nuovo nell’Articolo 75 della Costituzione, perché oggetto di studio del mio percorso universitario, approfondii maggiormente l’argomento (il numero di firme necessarie per richiedere un referendum, le materie sulle quali non è possibile richiederlo, le differenze tra Referendum abrogativo e Costituzionale – per il quale non è richiesto il raggiungimento di alcun quorum, etc. etc.).
In quelle poche ma essenziali parole – “ […] la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto […] ” – presenti nell’Articolo 75 della Costituzione si racchiudono, quindi, le battaglie referendarie degli ultimi ventisette anni.
Confidando molto sul fisiologico alto livello di astensionismo presente in Italia, ad ogni tornata elettorale non si sono più fronteggiati “quelli del SI” e “quelli del NO”, essendo questi ultimi sostituiti dal cosiddetto fronte dei “sostenitori dell’astensione”.
Da quel famoso Giugno del 1990 sono infatti cambiate le strategie politiche alla base dei Referendum e in molti casi (soprattutto dal 1997 in poi), molte persone “in teoria propense al NO”, quindi alla conservazione dello status quo, decidono, consciamente, di non partecipare al voto, al fine di non permettere il raggiungimento del quorum.
Se si volesse dibattere sull’opportunità etica di adottare o meno tale strategia si potrebbe stare qui a discutere ore, però, nel momento stesso in cui tale strumento è previsto in Costituzione, non si può tacciare chi se ne avvale, di essere un “cattivo cittadino”. Io stesso, nelle varie occasioni, ho deciso, di volta in volta, di andare (se intenzionato a votare SI) alle urne o di astenermi (se intenzionato a non abrogare quella legge, o parte di essa). Sicuramente uno degli aspetti più ridicoli è vedere i vari partiti e schieramenti politici attaccare l’astensionismo a fasi alterne, ossia solo quando alla loro parte non conviene. La cosa che mi ha sempre convinto poco è il vedere accorpati nella stessa tornata elettorale diversi quesiti, spesso di natura eterogenea; in tali casi, infatti, un’eventuale decisione di astenersi su un quesito si ripercuoterebbe gioco forza sugli altri (è infatti difficile che la massa decida di ritirare alcune schede sì e altre no).
Come risolvere il problema? Sicuramente sarebbe opportuno che almeno i partiti evitassero di dare consigli del tipo “Meglio andare al mare, o in montagna, piuttosto che andare a votare”; se, tranquillamente si limitassero ad appoggiare il SI o il NO, o addirittura – cosa ovviamente impensabile – lasciassero libertà di scelta, sarebbe un bel passo avanti. Idem si dica per le varie associazioni di categoria o, peggio ancora, le varie lobbies (si pensi ai cacciatori, a sindacati, a Confindustria, alla CEI, etc. etc.); anche queste ultime potrebbero limitarsi ad appoggiare una delle due scelte, senza mettere in campo l’astensione volontaria. A quel punto il singolo cittadino almeno non verrebbe invogliato a non recarsi alle urne.
Va da sé che sarebbe anche utile un provvedimento del nostro Parlamento volto ad “abbassare” in qualche modo e in alcuni casi la soglia del quorum, e questa era una delle cose positive presenti nella riforma Costituzionale bocciata lo scorso Dicembre 2016.
Per concludere vorrei aggiungere due parole proprio sul “Referendum Costituzionale”, che, sebbene si chiami “Referendum”, ha poco a che fare, nella ratio e nelle modalità, con il “Referendum abrogativo” di cui abbiamo parlato fino ad ora.
Nel referendum Costituzionale il popolo è chiamato alle urne solo quando c’è stata in Parlamento una Riforma che ha modificato parte della nostra Carta Costituzionale. Data l’importanza e la delicatezza della materia, può essere infatti richiesto un Referendum CONFERMATIVO, nel quale il cittadino, votando SI lo approva definitivamente, votando NO lo boccia.
Per il referendum Costituzionale non esiste quorum (il processo di legiferazione in materia è lungo e prevede doppio passaggio in entrambe le Camere), ossia non c’è bisogno di una soglia minima per renderlo valido. Spesso a scuola i ragazzi mostrano un discreto interesse verso l’istituto del referendum, sebbene ne confondano le tipologie (il Referendum del 2 Giugno 1946, con cui si istituì la nostra forma di Stato, la Repubblica, spesso viene confuso con il Referendum Costituzionale o, a volte, assimilato a quello abrogativo), e credo che qualche ora in più passata a spiegare tale istituto potrebbe aiutare a creare una futura classe di cittadini più competente su questo delicato, importante e a volte bistrattato strumento donatoci dai Padri Costituenti.