Il diritto alla casa, l’accesso agevolato o gratuito alle cure mediche, la tutela economica quando si perde il posto di lavoro, l’assistenza ai disabili, il diritto allo studio… sono alcuni dei temi presenti nell’attuale dibattito socio-politico italiano e internazionale, in particolar modo nei periodi – come questo – in cui le politiche economiche degli Stati si traducono in “Documento di Programmazione Economica e Finanziaria”, fatto di soldi impegnati nel Bilancio Pubblico. Oggi i governi, i legislatori, i politici, i sindacati, le associazioni di categoria rappresentano, nella maggior parte dei Paesi democratici e civilizzati, i principali attori delle sfide legate al futuro del benessere umano.
Con piacere ho potuto riscontrare anche da parte degli studenti un discreto interesse verso tali tematiche: i ragazzi sono spesso pronti ad intavolare discussioni su questioni sociali, sebbene non siano sempre in grado di fornire le giuste “etichette” ai vari fenomeni oggetto di discussione, o la loro giusta collocazione storica. Questo, però, non è un problema legato esclusivamente al mondo degli scolari, bensì alla cultura lato sensu di un Paese, di una popolazione.
Oggi si parla spesso di Welfare State (o Stato Sociale) soprattutto dal punto di vista dei diritti e dei servizi che uno Stato all’avanguardia deve garantire in questo o quel settore, ma troppo spesso, dall’altro lato, si fa finta di non comprendere la vera essenza dello stesso e gli obblighi (morali, civili, fiscali e di sostenibilità) che esso comporta.
Il Welfare, così come afferma il premio Nobel per l’Economia, il Professor Amartya Sen, è “forse stato il maggior contributo della cultura europea al mondo”, ma è una conquista civile che non ha neppure ottant’anni di vita e per la cui diffusione si sono scontrate correnti di Economisti (penso, per esempio a Keynes, forse il principale fautore dell’intervento dello Stato nell’Economia e Friedman, uno dei principali esponenti del pensiero “classico”, che ha invece sempre visto nel mercato l’unico “luogo” dove far incrociare domanda e offerta di beni, servizi e capitali, ribadendo la necessità di uno Stato fuori dalle partite economiche); non si può, quindi, dare tutto per scontato e dovuto, ma ogni tanto bisognerebbe pensare al valore delle conquiste sociali ottenute. La nascita del “welfare state” si fa risalire al governo laburista inglese in carica nel 1945, il quale provvide a nazionalizzare alcuni settori produttivi strategici: minerario, bancario, ferroviario, etc. A ruota fu istituito un sistema sanitario nazionale e infine fu creata la cosiddetta Previdenza Sociale.
In Italia, nel 1861, al momento dell’unificazione, in una nazione quasi totalmente liberista, i compiti lasciati allo Stato erano ben pochi, quasi esclusivamente riconducibili a difesa, ordine pubblico e giustizia. Verso la fine del XIX secolo l’intervento pubblico divenne più importante, anche se un notevole impulso alla spesa pubblica fu dato solo agli inizi del XX secolo. Durante lo stesso periodo fascista, a seguito della Crisi del ’29, lo Stato intervenne con decisione nell’economia (si pensi all’istituzione dell’IRI).
Il Welfare si fonda su una serie di principi economici che, ridotti all’osso (e forse con eccessiva semplificazione), vedono da una parte investimenti dello Stato per fornire in modo adeguato servizi o beni ai cittadini, seguendo per lo più un principio volto all’equità, dall’altra la necessità di garantire una copertura a tutto ciò, nel Bilancio Statale. Lo strumento principe per ottenere tali entrate risiede nel prelievo fiscale che, in una qualsiasi democrazia che voglia definirsi evoluta, non può che rispondere ad un principio di progressività (tutti i cittadini devono contribuire, in maniera sempre più elevata al crescere della propria capacità economica, al benessere dei più svantaggiati). Non a caso il principio della progressività è presente anche all’interno della nostra Carta Costituzionale da quasi ottant’anni. Eppure ancora oggi gran parte degli economisti che si ispirano alla scuola classica vedono nel fisco esclusivamente un freno all’attività economica, facendo finta di non comprenderne il fine etico oltre che finanziario. L’economia, secondo costoro, è fatta di cicli, a volte positivi ed altre negativi, ed è quindi normale che vi siano periodi di crisi, di elevata disoccupazione, di deflazione, insomma di “non benessere”. Secondo loro “passerà ‘a nuttata” e l’economia si riorganizzerà ad altri livelli di equilibrio per poi ripartire. Ma tutto ciò non è vero. Pensiamo a cosa sarebbe potuto accadere se durante le varie crisi mondiali (quella del 1929 o, senza andare troppo lontano, quella del 2008, che ancora oggi sta manifestando i suoi malefici aspetti) non vi fossero stati sistemi di welfare pronti a garantire almeno i servizi essenziali e i fondi minimi per la sopravvivenza.
Il funzionamento del Welfare dipende, però, anche e soprattutto dalle persone, dalle culture, dalle mentalità: in molte realtà (e non fa eccezione il nostro Stivale tricolore) troppo spesso lo Stato sociale si è tradotto in assistenzialismo e in spese inutili. Tornando, infatti, brevemente alla storia di casa nostra, l’Italia, affrontati i problemi legati alla ricostruzione post seconda guerra mondiale, inizia un deciso passaggio verso una forma di Stato Sociale sempre più spinta, tanto da trovare espliciti riferimenti nella stessa Carta Costituzionale, entrata in vigore nel 1948. Gli interventi nell’economia diventano sempre più frequenti e si rafforza sempre di più il peso delle imprese pubbliche. Dopo qualche decennio, però – ed eccoci arrivati al discorso della mentalità, della cultura di un Paese – lo Stato Sociale inizia a trasformarsi sempre di più in uno “Stato assistenziale” e le protezioni sociali, da un lato lasciano sempre più spazio ad agevolazioni per le imprese (spesso volte a dare boccate di ossigeno ad aziende mal gestite, ormai sul lastrico, del tutto improduttive), dall’altro vedono restringere il campo d’azione esclusivamente all’assistenza sanitaria e previdenziale.
Quanti medicinali richiesti in quantità superiore al necessario, per la poca attenzione e serietà di pazienti e medici compiacenti; quante cattedrali nel deserto, quante infrastrutture costruite in malo modo e poi lasciate all’abbandono, tutte espressioni di interventi statali che avranno sì garantito momentaneamente posti di lavoro, per poi divenire, però, vere e proprie diseconomie, minacce per l’ecosistema, foraggio per le mafie. Troppe volte la classe politica ha esteso benefici oltre il necessario ed in maniera indiscriminata esclusivamente per garantire una sorta di “compenso” per il voto ricevuto.
Si arriva, così, agli Anni Novanta con un debito pubblico ormai insostenibile e con l’ingresso nell’Euro alle porte (e ancora una volta ne approfitto per sottolineare quanto sia stato fondamentale essere passati alla moneta unica, a scanso di equivoci!), tutto ciò ha iniziato a comportare un restringimento delle azioni sociali e, dunque, una minor tutela verso le disuguaglianze economiche e sociali presenti nel Paese. Ma perché è avvenuto tutto questo? Essenzialmente perché alla base di ogni azione politica o economica c’è l’essere umano, con la propria storia, con i propri costumi, con le proprie debolezze.
Si pensi ai Paesi scandinavi, da sempre ritenuti un modello di riferimento nel sociale. E’ vero, sono nazioni piccole, più facilmente gestibili e quasi tutte esenti storicamente da grossi eventi bellici, ma dalla fine dell’Ottocento in poi le popolazioni di quei luoghi hanno sviluppato una vera e propria cultura-coscienza sociale, che li ha portati spesso anche a superare barriere ideologiche politico-economiche, pur di garantire uno sviluppo sociale a tutta la nazione. Ecco, allora, ancora una volta l’importanza della cultura, della mentalità; in Italia ci sono volute addirittura leggi su leggi per ribadire “le pari opportunità”, come se non bastasse l’articolo 3 della Costituzione a sancire nella sua prima parte la totale uguaglianza tra i sessi, eppure è così e mentre in Italia le donne sono ancora osteggiate dal mondo del lavoro e della politica, nel nord Europa sono spesso top manager di grandi multinazionali e spesso ai vertici politici di Comuni, Regioni o Governi centrali.
Volendo concludere questa breve analisi ponendo alcuni quesiti sul prossimo futuro, bisogna considerare come vi siano molti timori che, in una società ormai sempre più globalizzata, le misure sociali potrebbero subire sempre più un’azione di contenimento, che magari potrebbe spostare un giorno il centro nevralgico e decisionale in materia sociale dai singoli Stati verso un’entità sovranazionale. La crescita dei Paesi cosiddetti emergenti (Cina, India, Brasile, etc.) ha portato un miglioramento del tenore di vita in quei posti, anche se sono ancora molto lontani dal poter sperare in sistemi di assistenza sociale stabili. In generale, poi, l’innalzamento dell’aspettativa di vita e la diminuzione delle nascite soprattutto nei Paesi sviluppati porterà ad una sorta di paradosso: un aumento della domanda di beni e servizi socio/sanitari da parte di una popolazione sempre più anziana, che però, dall’altro lato, potrebbe essere sempre meno soddisfatta dai bilanci statali, venendo a mancare nuove forze contributive, a causa appunto delle minori nascite.
Ma, come sappiamo, in economia non vi è nulla di scritto e nulla di certo, anche se, grazie agli strumenti matematico-previsionali si sta iniziando quantomeno a dare una parvenza di scientificità a tale disciplina che – ricordiamolo sempre – è fatta pur sempre di persone, leggi, Stati, modi di essere, modi di comportarsi, modi di “sentire”. Il futuro dello Stato Sociale è nelle nostre mani e nelle nostre coscienze, ancor prima che nei bilanci statali e nelle decisioni di politica economica.