Nella settimana che vede ripresentarsi, puntuale come ogni anno, il carosello del Festival dei Fiori, ho voluto concentrarmi sulla figura del cantautore che con molta probabilità ha rappresentato la vetta della manifestazione, segnando nello stesso tempo il momento più tragico della storia della stessa.
Da quella maledetta sera del 27 Gennaio 1967 la storia del Festival e soprattutto della musica d’autore italiana non è stata più la stessa: arrivò a Sanremo Luigi Tenco, presentando una canzone che già nella sua fase di gestazione aveva subito diverse revisioni, ora nel titolo, ora nel testo, per motivi legali, legati alla casa discografica e personali.
Tenco, i cui testi da sempre si erano mossi tra la ricerca della gioia e il baratro del dolore, tra la voglia di vincere e il rischio di fallire, non sopportò la competizione, non resse allo (stupido) umano confronto e forse portò a compimento un piano interiore più volte rimandato.
Dopo neanche dieci anni di carriera si esauriva, con un colpo di pistola, la parabola artistica di uno dei più grandi talenti della musica d’autore italiana. Genovese d’adozione, Luigi Tenco si mosse fin dall’inizio su un doppio binario: quello musicale e quello esistenziale. Appassionato di musica jazz, nei primi anni della sua carriera, seguendo le orme di giganti quali Paul Desmond e Gerry Mulligan, si dedicò al sassofono, ma pian piano iniziò a farsi strada come autore e cantante (all’inizio usando diversi pseudonimi), muovendosi tra Genova e Milano, prima, e approdando alla RCA di Roma, poi.
Il suo carattere, introverso e riflessivo, segnò sin dall’inizio la sua musica e i suoi brani furono caratterizzati da una profonda introspezione; i temi sociali spesso si mischiavano alle vicende personali e la sua storia ci fa capire quanto i sentimenti siano nello stesso tempo quanto di più importante e quanto di più fragile abbiamo dentro. Dal punto di vista musicale abbracciò diversi stili, guardando con ammirazione ora a Nat King Cole ora al folk beat nascente, ma una delle sue grandi lotte fu proprio volta a cercare di esaltare le origini della canzone folkloristica italiana, attualizzandola, spronando gli artisti a non scimmiottare i colleghi inglesi o americani e a non riempire il proprio repertorio di cover di brani stranieri, peraltro spesso maldestramente tradotti; secondo Tenco gli astri nascenti del folk-rock americano avevano sapientemente attinto dalle proprie radici, dalla musica nera, dal jazz, dal blues e anche i Beatles avevano fatto lo stesso, riadattando con strumenti moderni e sonorità contemporanee le antiche linee melodiche britanniche, fatte spesso di cornamuse e trombe, e anche in Italia si sarebbe dovuto accentuare il recupero delle sonorità tradizionali autoctone. Autore di canzoni sofisticate, fatte spesso di giri armonici inconsueti per l’epoca, Tenco produsse nuovi linguaggi, ebbe intuizioni artistiche rilevanti ed espresse forti sentimenti civili e lirici, divenendo una pietra miliare della canzone d’autore italiana. La potenza di alcuni suoi testi fu attenuata dalla censura benpensante dell’epoca, che lo tenne fuori dai passaggi radiofonici per mesi e mesi. I suoi testi furono un mix di letteratura, storia, sociologia e filosofia, da molti fu addirittura paragonato a Cesare Pavese; credo poi si possano rintracciare sottili risvolti freudiani in alcuni suoi testi, pensiamo in primis a Vedrai, Vedrai. Melodie lente, delicati terzinati, sonorità tra jazz e bossa nova e a volte linee melodiche semplici e sbarazzine accompagnavano testi di denuncia sociale (si ascolti per esempio Cara Maestra, una delle più osteggiate dalla censura). Spesso la metrica diventava libera, diversa dai tipici costrutti poetici allora in vigore e ascoltando le sue canzoni ho spesso pensato a quanto fosse perfetta l’integrazione tra musica e parole – l’arpeggio che accompagna i primi versi di Un giorno dopo l’altro credo sia uno dei momenti più alti della musica leggera italiana. E infine…l’amore, forse il capitolo più delicato per Tenco che rinchiuse in molti suoi testi una visione angosciante del rapporto uomo-donna, evidenziando spesso sentimenti contrastanti, sottolineando malinconicamente le proprie delusioni e la propria insicurezza nel gestire il rapporto di coppia. Il suo carattere, le sue vicende umane e passionali e soprattutto il losco mondo che girava intorno alla macchina musicale, televisiva, discografica e cinematografica sono forse alcuni degli indizi di quel terribile epilogo del Festival di Sanremo del 1967. La manifestazione canora andò tranquillamente avanti celebrando Claudio Villa e degli amici più cari, al funerale, qualche giorno dopo, si vide solo il giovane Fabrizio De André, che gli dedicò di lì a poco la bellissima Canzone in Gennaio. Come spesso avviene, iniziò ad essere rivalutato subito dopo, raccogliendo il giusto tributo e la canzone Ciao amore, ciao, eliminata dal pubblico e dalla giuria da quel Sanremo, vendette in breve tempo trecentomila copie, una cifra che l’intera produzione discografica di Tenco fino a quel momento non era riuscita neanche ad immaginare. Ancora oggi decine di artisti si cimentano in rivisitazioni di alcuni suoi brani: ricordo a proposito una bellissima versione di Lontano Lontano di Morgan da cui rimasi colpito in un’esecuzione a Pescara una decina di anni fa e ancora diversi tributi ricevuti dai vari Capossela, Baustelle ed altri.
Concludo ringraziando personalmente per una volta il Festival: sabato scorso, grazie al fatto che Fazio fosse impegnato nelle prove per Sanremo, la sua solita trasmissione non è andata in onda, lasciando spazio, su Rai3, a un bellissimo ricordo-documentario dedicato proprio a Luigi Tenco.