Di registi cinematografici a cui vorrei dedicare un post si potrebbe stilare una lunga lista: Chaplin, Fellini, Visconti, W. Allen, Truffaut, Moretti, Eisenstein solo per citare alcuni dei miei preferiti. Ma ce n’è uno in particolare che da sempre mi ha colpito più di tutti per la sua unicità, per il suo eclettismo, per la capacità di toccare in maniera profonda, forte, disinteressata, sarcastica, tante e diverse tematiche sociali, storiche e psicologiche: Stanley Kubrick.
Il cineasta americano nella sua carriera ha prodotto in meno di 50 anni poco più di 10 pellicole ufficiali, che però pesano come macigni nella storia del cinema mondiale. Questa filmografia non certo sterminata è dovuta alla maniacale cura che metteva nel realizzare ogni pellicola, curandone ogni minimo dettaglio: costumi, musiche, fotografia, montaggio, etc.
Kubrick è unico quando tratta un argomento storico come la Prima Guerra Mondiale, in Orizzonti di gloria, evidenziando in uno stridente contrasto i limiti della trincea, dove le persone muoiono per conquistare qualche metro, e il comando generale, a volte perfino vicino alla trincea stessa, ma tanto lontano nei modi di intendere il conflitto. Con Lolita inizia a sviluppare al massimo il suo tema preferito, onnipresente nelle sue pellicole: l’ossessione. Oggi, nel XXI secolo il tema trattato nel film più di cinquant’anni fa è ancora tristemente presente nelle cronache nere di tutti i giorni e si è acuito in maniera vertiginosa con l’esplosione del web e dei social network. Nel Dottor Stranamore Kubrick, dopo essersi documentato leggendo più di 70 libri, tratta con amara ironia, in piena guerra fredda, i problemi esistenziali lato sensu, ingigantiti dal possibile uso dell’arma atomica.
Kubrick da sempre ha dimostrato di essere un precursore dei tempi, un innovatore; nel film 2001:odissea nello spazio raggiunge a mio avviso l’apice della carriera. E’ il film con la F maiuscola con cui si chiudono gli Anni Sessanta. Con tale pellicola riesce a nobilitare il genere della fantascienza, fino ad allora di poco valore, salvo rarissime eccezioni. Al solo pensiero che il film sia stato realizzato nel 1968 viene la pelle d’oca: è un’espressione sensoriale a 360° in cui musica, poesia, piacevole lentezza e profondità rapiscono lo spettatore dall’inizio alla fine.
Devo ammettere che, come capitato a molte persone, ho potuto apprezzare lo spessore della pellicola solo dopo la terza visione, e non riuscendo neanche a vederlo tutto la prima volta; il ricordo personale più bello legato a Kubrick è rappresentato proprio da una proiezione in lingua originale del film, in una sala del Palazzo delle Esposizioni di Roma nel Dicembre 2007, a margine di una mostra dedicata al regista: un’esperienza davvero indimenticabile.
Va ricordato che per molti critici il film è da considerarsi tra i 5 più belli di sempre.
Che dire poi di Arancia Meccanica, da molti tacciata stupidamente di essere una pellicola forte, dura e con scene di violenza gratuita, tanto da continuare a non essere trasmessa in TV in molti Paesi. Ancora una volta, invece, il regista racconta in maniera impeccabile un’ossessione, un disagio, forse generazionale, forse generalizzato, realizzando una profonda analisi introspettiva che certamente va oltre le mere immagini presentate nel film. In una scelta accuratissima di ambienti, musiche e contrasti cromatici, vengono raccontati diversi tipi di violenze: dell’apparato, delle cure mediche, delle forze dell’ordine, della gente in generale.
Ma Kubrick non poteva poi non cimentarsi in un genere come il thriller, dando il proprio contributo con uno stile ancora una volta unico ed inconfondibile: in Shining mostra tutta la sua abilità nell’inchiodare allo schermo lo spettatore, invischiandolo in una spirale di paura ed interesse che crescono sempre più, in maniera esponenziale; il fotogramma del viso spiritato di Jack Nicolson nello squarcio della porta appena distrutta con un’ascia è divenuta ormai un’icona del genere.
E poi ecco ancora tornare in ballo il tema della Guerra (stavolta quella del Vietnam) in cui però le tematiche sono diverse da quelle di Orizzonti di gloria: Full Metal Jacket è una radiografia dei pensieri, delle malattie, delle ansie, delle deformazioni mentali causate dalla vita militare.
Il film esce nel pieno dei “fantastici Anni Ottanta” in cui la spensieratezza, il nuovo (finto?) boom economico, e il conservatorismo anglo-americano imperante la facevano da padroni. La pellicola riporta per un po’ la mente dello spettatore a problematiche forse tenute ad arte troppo nascoste dall’establishment.
L’ultimo cameo, purtroppo lasciato incompiuto da Kubrick, che muore quando si sta ultimando la pellicola, è Eyes Wide Shut, a mio avviso uno dei film più belli del regista americano, in cui si squarcia il velo su una vita di coppia che si muove tra una stanca quotidianità, mille supposizioni, tradimenti veri o presunti, cose accadute o forse solo sognate, delitti e travestimenti, insomma un quadro probabilmente molto realistico degli usi e costumi di una società americana (e in genere occidentale) di inizio millennio.
Spartacus, Barry Lyndon, Rapina a mano armata e Il Bacio dell’assassino sono le altre quattro pellicole che completano la filmografia ufficiale di Stanley Kubrick.