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The Endless River: i Pink Floyd e un ritorno di cui si poteva fare a meno

Posted on 17 Novembre 201417 Novembre 2014

the endless river pfDi solito i miei post musicali sono sempre tesi ad esaltare, a rivalutare, a celebrare, ma per la prima volta ho ritenuto fosse doveroso esprimere un disappunto nei confronti di una delle band più prestigiose della storia del rock, i Pink Floyd, o meglio, di quello che ne rimane, ossia Gilmour, Mason e tanto marketing.
Da qualche mese circolava in rete la notizia di un nuovo disco della band britannica, il che mi è sembrato da subito molto strano: a parte la sporadica reunion benefica del 2005, Roger Waters non fa più parte della band dagli inizi degli anni Ottanta, pochi anni fa è scomparso Wright, tastierista e anima del sound floydiano, allora quale album sarebbe potuto mai uscire dopo vent’anni di silenzio?
La risposta, ahimè, sta in una poco riuscita operazione di rivitalizzazione di ore ed ore di sessioni musicali fatte durante le registrazioni dell’ultimo album, The Division Bell, nella prima metà degli anni  Novanta e riesumate dagli scantinati degli studi di registrazione, con l’aggravante  che il disco è stato fatto passare come una sorta di celebrazione dello scomparso tastierista, finendo invece per rendergli davvero poco onore.
Ho appena terminato il secondo ascolto dell’album e fatico ancora a trovare due minuti consecutivi interessanti, o quanto meno degni della band che ci ha deliziato con pietre miliari quali Dark Side of the moon, Meddle, Wish you were here, Atom Heart Mother, Animals, etc.

Tappeti sonori e giri di basso che sembrano voler scimmiottare Shine on you Crazy Diamond , arpeggi di chitarre acustiche o maldestramente effettate  che, nella migliore delle ipotesi, sembrano improvvisazioni dell’epoca abbozzate durante le prove, nella peggiore maldestre sovraincisioni postume. Quello di cui si percepisce maggiormente l’assenza sono l’amalgama, il feeling, le sonorità, elementi  storici distintivi  dei Pink Floyd; sembrano lontani anni luce i magistrali tocchi dello storico ingegnere del suono, Alan Parson, grazie al quale i dischi apparsi negli anni Settanta mostrarono una purezza di suoni e una qualità di registrazione da sembrare essere usciti nell’era digitale.

Per i fan della prima ora della band i Pink Floyd erano già morti sul finire degli Anni Sessanta, a seguito dell’uscita  di Syd Barrett, l’anima psichedelica del Gruppo, per la maggior parte il capitolo si era definitivamente chiuso dopo la dipartita di Roger Waters che, dopo il successo mondiale di The Wall, iniziò a scontrarsi col resto della band, andando via dopo il fiasco di The Final Cut del 1983. Ma io sono tra quelli che vogliono dare i giusti meriti anche ai tre rimanenti membri, che riuscirono con A momentary lapse of reason e The Division Bell a traghettare la band negli anni Ottanta e Novanta,  realizzando due tour ed altrettanti  album live memorabili, sold out in tutto il mondo, che hanno permesso alle nuove generazioni, me compreso, di scoprire la grandezza  dei Pink Floyd.

Di quest’ultima operazione, però, davvero non avevamo bisogno; noi, ma forse neanche loro. Se il materiale era stato scartato all’epoca, un motivo ci sarà pure stato, perché propinarlo oggi, in un cd di quasi venti brani musicali (ad eccezione di uno cantato, confezionato ad hoc per esigenze radiofoniche), noiosi, ripetitivi e scollegati tra loro?  The endless river, un fiume che sarebbe stato meglio arginare.

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