In questi giorni per oltre cinquecentomila studenti e studentesse si sta chiudendo il lungo percorso scolastico e di vita che li conduce alla maturità e il mio pensiero è andato più volte a loro, ai nostri ragazzi, verso i quali noi genitori o educatori nutriamo troppo spesso una certa diffidenza diffusa: siamo sempre pronti a rilevare i loro difetti, le loro mancanze, snocciolando paragoni con altri periodi storici, con altre generazioni, con noi stessi, giudicando, comparando, spesso non tenendo minimamente conto che di fronte a noi abbiamo ragazzi e ragazze (che siano da 10 o che siano da 2 in pagella) ognuno/a con una propria storia, con un proprio vissuto, fatto di gioie, dolori, sentimenti, delusioni, a volte tragedie; dimentichiamo, forse, di essere stati adolescenti e di esserlo stati in periodi sociologicamente diversi e, quasi sempre, dimentichiamo di essere stati per molti versi più fortunati, per aver vissuto, chi più e chi meno, situazioni familiari o ambientali spesso più agiate.
Sì, è vero, durante il percorso scolastico non tutti gli studenti riescono a tirar fuori il meglio; alcuni, addirittura, arrivano ad avere comportamenti totalmente sopra le righe e noi docenti siamo sempre (e giustamente) pronti a riprenderli, a pungolarli, a dar loro consigli utili per la vita, a cercare di far sviluppare in loro sempre una competenza in più, a indirizzarli sulla strada della legalità e del rispetto delle regole.
Arriva, poi, il momento dell’esame di maturità e in questi giorni scopro con piacere, stupore e un pizzico di commozione, che quei ragazzi e quelle ragazze che fino a dieci giorni fa ci hanno fatto spesso disperare, varcano per l’ultima volta il cancello della scuola quasi già uomini veri e donne vere: ho visto ragazze piangere (alle otto del mattino di paura, alle 10 di gioia infinita), mamme emozionate con mazzi di fiori, in attesa, fuori dal cancello, sotto il sole cocente, papà con gli occhi lucidi di fronte alla lettura dei risultati, ragazzi vestiti di tutto punto, come per andare ad un matrimonio, sedersi alla cattedra per spiegare il proprio elaborato, con fare sicuro e deciso, quegli stessi ragazzi che per anni abbiamo ripreso per aver avuto comportamenti sbagliati, abbigliamento non in linea con i regolamenti scolastici o per essere semplicemente colpevoli di essere…millennials, quindi lontani anni luce da noi; ora te li ritrovi lì a proiettare il loro video o il loro power-point, come in un meeting aziendale o in un convegno e di colpo scopri che, nel momento del bisogno, hanno sviluppato, chi in maniera più blanda, chi in modo più deciso, competenze di problem solving, competenze digitali e competenze sociali e civiche, superando anche il primo loro grande scoglio della vita: la pandemia.
Il bello di poter insegnare alle scuole superiori sta nel poter monitorare giorno per giorno, anno dopo anno, forse ancor più delle famiglie, la vera evoluzione psico-fisica di ogni singolo ragazzo o ragazza: durante i cinque (o qualche volta più) anni si palesano le più profonde differenze, in termini di voti, di comportamento, ma quando si arriva alle soglie della maturità si ha la sensazione che quasi tutti i ragazzi siano ormai arrivati a capire l’importanza del momento, a prescindere da quello che sarà l’esito finale.
Ho visto ragazzi e ragazze manifestare per cinque anni un disinteresse generalizzato verso la scuola o verso questa o quella disciplina, e poi venire a chiederti, un mese fa, durante un’ora di supplenza in DAD: “Professore, per favore, possiamo non fare la pausa? Può andare avanti con la lezione? Sono tutte cose importanti per il nostro esame…” e addirittura ringraziarti, alla fine della lezione.
E’ questo quello che ho visto in tanti studenti e studentesse delle classi quinte: la voglia di diventare maturi, non per lo Stato, non per la scuola, non per i genitori, non per il diploma, ma per loro stessi.
Fidiamoci un po’ di più dei nostri giovani.