Ammetto subito che, delle oltre 900 pagine che compongono “Il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty, ho letto finora non più del 30%, ma tanto basta per dedicargli l’ultimo mio post del 2014.
Il bestseller dell’economista atipico francese è stato da poco eletto il miglior libro del 2014 (Business Book of the year – 2014 ) dal Financial Times, dopo essere stato dalla stessa rivista anche attaccato nei mesi passati. Dopo la traduzione in inglese, e poi nelle altre lingue, il testo di Piketty ha iniziato ad avere una diffusione enorme col merito di aver riportato il dibattito economico sulle disparità tra ricchi e poveri.
La voluminosa opera di Piketty ha attirato l’attenzione di studiosi, economisti, movimenti politici e organizzazioni internazionali e lo stesso autore è stato ricevuto alla Casa Bianca, al Fondo Monetario Internazionale e in molte altre prestigiose sedi istituzionali.
Dopo aver raccolto un’ingente mole di dati, l’autore ha organizzato e analizzato il materiale, traendo dalle varie serie storiche economiche importanti conclusioni numeriche, grafici, tabelle esplicative, col merito di promuovere – e queste sono le sue parole dopo aver ricevuto il premio del FT – “la democratizzazione della conoscenza economica” perché “questioni come la ricchezza, il capitale e il debito pubblico non possono essere lasciate a un piccolo gruppo di economisti”.
Molti sono gli spunti degni di interesse presenti nel libro e qui non c’è spazio per trattarli tutti , ma spesso tra le righe aleggia una triste presa di coscienza: i rendimenti del capitale sono maggiori della crescita dell’economia reale e pertanto i ricchi diventeranno sempre più ricchi e la disuguaglianza aumenterà.
Le nostre economie occidentali non si stanno muovendo in direzione di una maggiore uguaglianza e quello che ci aspetta è il ritorno a un capitalismo ottocentesco: chi è nato ricco, o lo è diventato, diventerà sempre più ricco perché il rendimento del capitale è superiore alla crescita dell’economia reale (Pil) e del reddito e in un’economia stagnante quale quella europea, non sarà difficile, per chi vive di rendita, mantenere la propria posizione di preminenza, e così, per gli eredi. Gli attuali superstipendi dei top manager americani equivalgono ai latifondi ricevuti in dono nelle economie feudali, cioè la premessa per una futura e crescente disuguaglianza tra chi ha e chi non ha (e non potrà mai avere).
Messa così sembrano affermazioni abbastanza catastrofiche, ma è una sorta di cruda verità a cui abituarsi se a livello mondiale non inizieranno a cambiare un bel po’ di cose: per Piketty la politica di austerity di Bruxelles è per l’Europa un vero e proprio macigno e soprattutto in questa fase di crisi è deleterio, oltreché impossibile, tentare di ridurre il debito. A proposito della nostra nazione, Piketty ha affermato, per esempio, che «l’Italia ha più debito pubblico che proprietà pubblica» per cui «anche se il governo vendesse tutte le proprietà non sarebbe in grado di rimborsare tutto il debito ».
Concludo proponendo uno spunto di Piketty sul tema, da me più volte proposto, dell’Europa e su cui troppo spesso si sentono solo banalità, dettate da una forte vocazione populistica.
“I parametri di Maastricht sono stati fissati in modo sbagliato, senza un intervento del Parlamento europeo. L’Eurozona va ripensata. Come possiamo avere una moneta unica e poi 18 deficit diversi, 18 debiti pubblici diversi? Come è possibile creare fiducia quando ci sono Paesi che pagano meno dell’1% di interessi sul loro debito pubblico e altri che ne pagano il 4 o 5%?” Per Piketty l’Unione Europea dovrebbe avere una politica fiscale comune. Come ho sostenuto in altri post, il problema non è quindi decidere se uscire dall’Euro, ma rivederne i meccanismi. Se una nazione oggi abbandonasse la moneta unica, ma quest’ultima continuasse ad esistere per le altre, sarebbero solo guai per chi è uscita. L’ultima ratio potrebbe essere sì la scomparsa della moneta unica, ma per tutti, col ritorno alle valute locali, al meccanismo dei cambi flessibili e delle svalutazioni etc.etc., con tutto quello che potrebbe comportare: rischi e benefici. Insomma: tutti dentro o tutti fuori.