Come ogni anno, arriva il giorno del Festival dei Fiori, e tutti giù a scrivere post, tweet o a “whatsappare” commenti (nella migliore delle ipotesi) o sproloqui e aspre critiche sulla qualità delle canzoni, sui compensi ad ospiti e conduttori, sui vestiti, sulla composizione della giuria (è di qualche giorno fa la polemica legata alla presenza, tra i giurati, di Andrea Scanzi, per alcuni – in primis Claudio Baglioni – un esperto critico musicale, per altri un tuttologo incompetente, non solo in ambito musicale). Su cinque giorni di Festival, però, finisce sempre che ogni persona, anche per sbaglio, si imbatta per un momento in una canzone, in un’intervista, in un servizio di un telegiornale, anche solo per il gusto di criticare (e la maggior parte delle volte – devo dire – anche a ragione).
Eppure, nei tempi passati – almeno per quella che è la mia esperienza, la mia età,– nella cittadina ligure ci sono stati anche momenti interessanti, che a volte riaffiorano nella mente.
I miei primi ricordi vanno alle edizioni di inizio anni Ottanta, alla comparsa dello sconosciuto Vasco Rossi sul palco, seguito a ruota da un certo Zucchero, con canzoni finite negli ultimi posti, ma presenti – e gettonatissime -nei juke-box (anche del bar di Borrello, il mio paese di nascita e di gioventù), da Febbraio fino al Gennaio dell’anno successivo.
Chi può scordare, poi, l’immagine di Peter Gabriel che si lancia sul pubblico, cadendo malamente, durante l’interpretazione di “Shock the monkey”. Lo stesso fondatore dei Genesis tornerà, poi, sul palco dell’Ariston nel 2003 con l’ennesima trovata scenica, ossia una performance all’interno di una sfera gigantesca e rimbalzante, cantando“Growin’ up”.
Nel periodo del grande successo di Arena arrivano a Sanremo i Duran Duran, con “Wild boys”scatenando le teenagers italiane, nonostante l’ingessatura della gamba di Simon Lebon e generando un clima simile soltanto a quello legato all’arrivo in Liguria, decenni prima, dei Beatles. E poi Sting, da poco uscito dai Police, presenta al festival un brano molto discusso, “Russians”, in un clima internazionale che non aveva ancora visto la fine della Guerra Fredda. Ma non solo ospiti e soprattutto, non solo concorrenti come i soliti Fiordaliso, Marcella, Peppino di Capri o Drupi…
Nel 1987 ricordo nitidamente la comparsa di un personaggio allora a me sconosciuto, che tornava sui grandi palcoscenici con una canzone avvincente e in grado di esaltare una delle voci maschili più belle di sempre: Massimo Ranieri trionfava con la sua “Perdere l’amore”. Passano pochi anni e Sanremo ripropone all’occhio della grande platea un’altra artista, andata inspiegabilmente nel dimenticatoio negli anni precedenti, Mia Martini, che propone in tre diverse edizioni a cavallo degli Anni Ottanta e Novanta altrettanti capolavori, che ancora oggi mi regalano forti emozioni: “Almeno tu nell’universo”, “La nevicata del ‘56” e “Gli uomini non cambiano” sono tre autentiche perle della musica leggera italiana. E’ poi tornato il momento dei duetti “Italia-resto del mondo” e allora come dimenticare Ray Charles che, agli inizi degli Anni Novanta, interpreta in inglese un brano di Toto Cutugno (l’eterno secondo – un po’ come la mia Juventus in Champions League), facendolo sembrare eccelso.
Una miriade di canzonette, di terribili rime baciate, di testi spesso orripilanti, ma di Sanremo voglio ricordare anche le felici ed interessanti apparizioni di Enzo Jannacci, Fiorella Mannoia, Pierangelo Bertoli, Patty Pravo (che torna al Festival nel 1997 con la stupenda “E dimmi che non vuoi morire”, composta per lei da Vasco Rossi).
E poi, gusti e passioni personali a parte, va ricordato come due dei più affermati artisti italiani all’estero, Eros Ramazzotti e Laura Pausini, iniziano la loro scalata verso il successo proprio dal palco dell’Ariston.
Un giorno, invece, perfino mio padre, affezionatissimo al Festival di Sanremo, non riuscì a trovare alcunché di buono durante una edizione, fino a quando non comparve sul palco un uomo con un’armonica ed una chitarra, ad incantare tutta la platea: era il 1996 e sul palco salì Bruce Springsteen, cantando la splendida ballata “The ghost of Tom Joad”. Mi telefono’ (perché io ero a Pescara all’Università) e disse: “ Oh, si viste quille c’ha candate mo’?…quille sci’ ca è fort’!!” Arriviamo al nuovo millennio e in mezzo a canzoni ed edizioni davvero brutte, esperienze di conduzioni ai confini della vergogna, appaiono, di quando in quando, concorrenti bravissimi che spesso poco hanno a che fare col Festival: Bluvertigo, Quintorigo, Subsonica, Negroamaro…
Arriva, poi, il momento di Roberto Vecchioni, un altro “big” che nel 2011 decide di varcare i cancelli dell’Ariston, nonostante la sua estrazione musicale un po’ più “elitaria”. Si presenta, canta, incanta e vince.
L’ultimo pensiero voglio rivolgerlo alla Band che, quando apparve nel 1996 sul palcoscenico di Sanremo, mi sconvolse, non tanto per il testo (sebbene poi sia diventato un “Cult”, ahimè foriero di troppe verità legate ai costumi – politici e non – del nostro stivale, “La terra dei cachi”) ma per la tecnica musicale, per i continui cambi di tempo, per gli aspetti scenografici, per le trovate di costume: Elio e le storie Tese credo siano stati, musicalmente parlando, tra i punti più alti del Festival e sono il principale, se non l’unico, motivo che stasera mi farà dare un’occhiata al Festival.