Avevo quattro anni quando un ex attore hollywoodiano veniva eletto come quarantesimo Presidente degli Stati Uniti, non sapevo cosa fosse l’America (come non lo so oggi), non sapevo ancora chi fosse Cristoforo Colombo e non avevo mai masticato neanche un chewing gum.
Durante le scuole elementari inizio a scoprire, grazie anche ai miei genitori e ai miei fratelli, “le cose del mondo”: il Presidente della Repubblica Pertini che si occupa del piccolo Alfredino, finito tragicamente nel pozzo di Vermicino, e che, un anno dopo, esulta sugli spalti del Santiago Bernabeu per la vittoria italiana ai mondiali di calcio; le competizioni calcistiche che il mercoledì aprono la mia fantasia sui più disparati luoghi dell’Europa; lo scoppio della centrale di Chernobyl, il mondo diviso in due, raccontato in maniera fantasiosa da Rocky 4, la tragedia dell’Heysel, la lady di ferro Margareth Tatcher; la musica, sempre presente, 24 h, tra le stanza di casa, o perché suonata (da mio padre, dai miei fratelli, dai loro amici) o perché ascoltata e riascoltata, consumando musicassette e lp.
Un giorno, ascoltando Lucio Dalla, vengo catturato dal verso “ma l’America è lontana, dall’altra parte della luna”, una frase che, sommata alle centinaia di TEX di mio fratello che circolano per casa e alle decine di film western che nelle serate invernali capita di guardare in famiglia, mi apre la curiosità su un mondo, su una terra, su una cultura, che ancora oggi vedo essere affascinante e contraddittoria allo stesso tempo.
Dalla storia studiata a scuola e dai racconti dei nonni, inizia a venir fuori la sagoma di uno Stato, l’America, più vicina a quelle di un Luna Park che di una nazione: “…eh, quello lì se ne andò emigrante in America e poi iniziò a spedire a casa tanti soldi, tanti vestiti, tanti regali…”; “loro ci hanno liberato dai tedeschi! Ricordalo!”, “…arrivarono in paese portando scatolette e cioccolate per i bambini, che ne sapete voi?!”, solo tanti anni dopo avrei scoperto che “tanti di quei regali e di quelle scatolette” li stiamo ancora in qualche modo pagando.
Ma torniamo a Ronald: tra il 1980 e il 1988 è il momento di Reagan come Presidente a stelle e strisce: repubblicano, prototipo della realizzazione del sogno americano, pronto a risollevare l’economia statunitense a colpi di ricette liberiste (spesso alquanto strampalate – ma questo lo avrei scoperto solo dopo aver sostenuto gli esami di Economia Politica 1 e 2 ), si presenta pieno di contraddizioni e con una guerra fredda ancora in atto. In otto anni, insieme a Mikhail Gorbaciov (l’ultimo capo di Stato di un’Unione Sovietica, ormai in via di disgregazione), si impegna, nel famoso incontro di Reykjavík dell’Ottobre 1986, a ridurre gli armamenti nucleari, ponendo una pietra quasi tombale su quasi quarant’anni di guerra fredda, e non è poco.
Nel 1988 viene eletto George Bush senior, che non passerà di certo alla storia, se non per decisioni improvvide, quali la Prima Guerra del Golfo del 1991. Anche lui repubblicano, riesce nell’impresa di far rimpiangere il suo predecessore, Reagan e, ovviamente, nel 1992 non riesce ad ottenere il secondo mandato: viene sconfitto da un personaggio nuovo, Bill Clinton, democratico, attivo, energico, forse fin troppo (il caso Lewinsky e la gestione della guerra nel Kosovo non verranno ricordati come due momenti storici del suo doppio mandato). Persa la sfida, Bush si presenta davanti ai microfoni e con grande stile ammette la sconfitta e apre, simbolicamente, le porte della Casa Bianca al nuovo inquilino.
Ho ormai completato gli studi universitari e sto per affacciarmi al mondo del lavoro quando arrivano le elezioni del 2000; ho iniziato da anni a farmi una mia idea sul mondo a stelle e strisce e nemmeno la grandezza di Bob Dylan e quella di Miles Davis me la fanno amare con passione: riconosco le tante opportunità, ma anche le troppe contraddizioni: la pena di morte, le cure sanitarie, la mancanza di adeguati ammortizzatori sociali, la continua pretesa di dover trattare le altre nazioni sempre e solo dall’alto verso il basso. Sebbene, quindi, molto distante dalla cultura americana e sempre più innamorato dei valori alla base della nascente Unione Europea, non posso però ignorare l’importanza che gli USA rivestono, anche di riflesso, sulle nostre vite e così, nel 2000, quando Al Gore sfida il figlio dell’ex Presidente Bush, aspetto con ansia gli esiti dell’Election Day, seppur con un finale amaro. Vince per pochissimo Bush,ma il bello della democrazia è anche questo: perde uno dei candidati democratici forse più in gamba (tanto da meritare anni dopo il Nobel per la Pace per il suo impegno sulle questioni ambientali) e vince un ex governatore repubblicano, vicino ad aziende quanto meno sospette e supportato da svariati produttori di armi. Dopo un anno arriva l’immane tragedia delle Torri Gemelle e nessuno potrà mai dimenticare la sua (non) espressione nel momento in cui gli comunicano la notizia. Non avrei bisogno di aggiungere altro, ad ogni modo, iniziamo ad essere tremendamente lontani dallo stile di Reagan e anche da quello di Bush senior; dopo la situazione generalizzata di terrore post-11 Settembre, con annesse guerre in Afghanistan e in Iraq, viene comunque rieletto per un secondo mandato, ma gli ambienti Repubblicani iniziano a diventare insofferenti verso lui e verso i possibili successori.
E’ il 2008, sta per nascere mio figlio e sulla scena politica americana appare Barack Obama,democratico, di colore, motivato, dotato di capacità dialettica fuori dal comune, pieno di buoni propositi. In breve: vince le primarie, conquista un Nobel per la Pace (anche se forse un po’ troppo generoso), vince le elezioni, pronuncia un discorso memorabile e riesce a governare per due mandati: apprezzabilissimi i risultati sul fronte sanitario, e non solo, ma la crisi economica mondiale e la mancanza dei numeri in Senato lo frenano in alcuni momenti topici.
Il Partito democratico si prepara ad affrontare le elezioni del 2016, candidando la prima donna della storia, Hillary Clinton: il suo cognome, alcune vicende personali, alcuni errori strategici, ma soprattutto la macchina di fango e bugie creata da un Partito Repubblicano ormai decaduto fanno il resto: viene sconfitta da Donald, che nulla a che fare con Reagan, che nulla ha a che fare con i Bush vari, che nulla ha a che fare con la politica nel senso più nobile del termine, che nulla ha a che fare col prossimo, che nulla ha a che fare col bene comune. Pur garantendo in quattro anni un minimo di rilancio economico con misure protezionistiche alquanto improbabili e a brevissimo termine, riesce a far toccare agli Stati Uniti e al Partito Repubblicano il punto più basso della loro storia, tanto da essere osteggiato anche dentro il suo Partito. Meglio sottacere le sue posizioni sui muri, sulle donne, sul COVID, sull’ambiente, sugli scandali ai limiti dell’impeachment… Il resto è storia di questi giorni.
Tutti i Presidenti hanno sbagliato e hanno fatto scelte giuste, cercando quasi sempre il bene dell’America; a lui, dell’America, forse, non è mai interessato nulla, a dispetto dei suoi slogan ad effetto.
Ma l’America è lontana, dall’altra parte della luna. Per fortuna